Lasciatemi, belle Dee dei boschi scuri di montagna, lasciatemi cantare una debole carezza fatta di musica e di amore, le uniche cose rimastemi,
le uniche cose lasciate a Orfeo di Tracia, un tempo cavaliere di Grecia, della ridente Grecia dagli azzurri mari e dalle bianche colonne infrante,
ora però solo Orfeo del buio Ade, Orfeo che dorme un sonno senza sogni nella fredda morsa della Notte Senza Fine, Orfeo che piange il suo amore perduto, Orfeo senza speranza.
“Perché”, mi direte mie belle Dee, “perché ci disturbi volendo cantare d’amore, quando il mondo intorno a te crolla, quando le figlie e i figli degli uomini gridano e fuggono per gli orrori che li sovrastano?
Canta piuttosto, tu che già sei ombra, gli oscuri anfratti dell’Ade da cui nessun viandante mai ha fatto ritorno, canta i lamentosi uggiolii di Cerbero, che con le sue tre fauci divora gli spiriti, canta il nero fiume Acheronte, che tutti i mortali dal triste destino attende.
Eppure anche questi orrori sarebbero poca cosa, figlio della selvaggia Tracia, se un destino ben peggiore non attendesse l’uomo, la cui vita è breve come quella dei fiori di campo, come il soffio di una fanciulla fra i capelli dell’amato, come una stella, che ti ammicca nel velluto della notte per svanirvi subito”.
Così mi dite, mie belle Dee, voi su cui il Tempo crudele non ha potere, voi che ogni Aurora salutate senza paure, voi che Amore non sapete cos’è, voi che la Passione degli uomini dal triste destino non tocca.
Eppure, mie belle Dee, mai, mai Orfeo di Tracia, ultimo dei musici quanto voi siete le prime nell’Olimpo, mai egli cambierebbe il suo destino di morte con la vostra vita eterna, con la vostra vita che Amore non conosce, che non sa come un uomo può per sempre perdersi negli occhi di chi ama, che non sa cosa significhi soffrire per l’assenza della fanciulla che per sempre è penetrata nel tuo cuore, e che un fuoco eterno vi ha acceso, un fuoco che più durerà delle nude colonne del Partenone baciato dal sole, che ancora arderà quando le stelle, la Galassia e la lunga serie dei secoli avran consumato il cosmo e la sua vita immortale.
Più non posso, mia Euridice – e questo, mie belle Dee, devasta l’anima mia prigioniera – sentire il suono argentino della tua voce che mi risveglia al mattino, più non posso tenerti la mano e percepire il suo calore, più non posso spiarti furtivo l’anima attraverso gli occhi tuoi senza tempo, e più non posso sentire il tuo profumo sul cuscino vuoto al fianco mio.
Non vi supplico, mie belle Dee, affinché mi lasciate il suo ricordo nella mente, ove già si trova impresso come marchio rovente e doloroso, né perché mi consentiate di stringerla ancora fra le mie braccia un solo, infinitesimale istante – seppure, oh, Dei, quanto ne senta la bruciante mancanza! – ma solo vi scongiuro, io anima indegna, gravida di colpe e mancanze, che a lei facciate arrivare le note di questa melodia.
Questo solo Orfeo, un tempo cavaliere di Grecia vi chiede, e poco può offrirvi in cambio, oltre la musica sua e la poesia che più non sgorga come da vivo dalle sue labbra, che ora come arida fonte tacciono.
Se ancora avessi un petto, se ancora avessi un cuore in cui esso potesse palpitare, allora sì potrei mostrarvelo, e farvi vedere com’esso danzi, al solo pensiero ch’ella, la donna che in vita ho amato, ha potuto sentire il mio canto d’amore.
Anche solo per un attimo, quaggiù, nel cupo e silente Ade.