IL CINEMA ATTRAVERSO LO SPECCHIO



Curato da Enrico Azzano, Andrea Fontana e Davide Tarò, "Satoshi Kon - Il cinema attraverso lo specchio" è un libro collettivo ben strutturato e schematizzato che ripercorre con piglio appassionato la storia dell’artista nipponico non solo nell’ambito cinematografico ma anche in un frame trans-nazionale che pone il contributo del regista all’interno e al di sopra dei confini geografici. La sua architettura è semplice ma ben congegnata perché divisa in due parti, entrambe necessarie a esplorare un campo come quello dell’animazione che solo eventi storici relativamente recenti hanno scorporato dalla pesante patina snob di certa critica e di alcuni addetti ai lavori (nel libro il termine usato è “ghettizzazione, più o meno volontaria”). Non è un caso dunque che la prefazione sia scritta da Marco Müller, il direttore artistico della Mostra di Venezia che ha “osato” portare alla Biennale opere come Steamboy di Katsuhiro Otomo, The sky crawlers di Mamoru Oshii e Il castello errante di Howl di Hayao Miyazaki. Sinologo ma anche orientalista Müller dà di Satoshi Kon una definizione che centra perfettamente il ruolo che ha assunto nel cinema e nell’animazione fin dagli esordi : Kon è “probabilmente (assieme a Mamoru Oshii) il più bizzarro ed eccentrico dei protagonisti del cinema anime nell’epoca di Hayao Miyazaki”. L’opera di Satoshi Kon viene perlustrata in lungo e in largo, al centro delle sue pellicole e ai margini delle sue contaminazioni, a partire dall’introduzione di Andrea Fontana che sembra un carrello di Truffaut che segue il suo soggetto da lontano, ma neanche tanto, per poi avvicinarsi al dettaglio : nella direzione della biografia e nel corso della filmografia. “Il cinema di Kon è un ibrido inedito che coniuga cinema dal vero (e l’amore per esso) e potenzialità visive proprie degli anime” : il cineasta si profila dalle prime descrizioni un Lynch con gli occhi a mandorla che scompiglia le sagome e le figure dei suoi personaggi per tormentarli con vite, allucinazioni e pensieri mai condensati nella linearità del geometrico raziocinio.

Il volume, lontano dalla forma saggistica accademica e asciutta nei tecnicismi e nello stile, è organizzato in due parti dotate di una dinamicità che sembra quasi ricalcare sul foglio la verve di Kon senza i freni inibitori del testo impaginato ma con interventi soggettivi e specifici : la prima si occupa della filmografia del regista di cui analizza ogni tappa, la seconda intacca quelle dimensioni profonde come il sogno, il montaggio e il suono che sono distillate dalla produzione koniana e che emergono tanto dai cuori delle storie e dei personaggi quanto dall’immagine stessa. Attraverso le analisi individuali degli autori e i saggi di approfondimento, tra i quali vanno segnalati “Sogni di memorie, memorie di sogni. Satoshi Kon e il cinema” di Raffaele Meale e “L’infinita trama del reale. Immaginario, sogno, verità nell’estetica di Satoshi Kon” di Marcello Ghilardi, il lettore riesce subito a intuire che si trova di fronte a un oggetto di studio sfaccettato e a stringere tra le mani gli strumenti che gli permetteranno di sondare un terreno assai fertile ma finora poco esplorato in Italia. Regista poliedrico, Kon ha realizzato capolavori della visionarietà e opere brillanti che vengono esaminate con scioltezza dagli autori, i quali attraverso i loro contributi ritraggono senza troppe forzature un vero e proprio Lynch delle anime. La scrittura chiara illustra la filmografia di un autore originalissimo e poliedrico, dotato di sconvolgente ironia e privo di luoghi comuni e accademismi. In fondo Kon sfugge alle categorizzazioni con la stessa velocità supersonica con cui le sue immagini si dilatano sullo schermo, le superfici si agitano e si aprono come varchi profondi che serbano un virtuosismo e un illusionismo visionario che pongono il dilemma live action-animazione in secondo piano mentre iperboliche suggestioni dal potenziale infinito gli consegnano lo statuto della poesia. Con il ricorso, mai abusato, a un contesto metacinematografico (perché il cinema di Kon “è in perenne riflessione su se stesso e sulle proprie dinamiche”) che fa deragliare il concetto primordiale, e minimale, di cartone, Kon scrive una pagina stimolante della storia del cinema incastrandola negli interstizi della realtà, in un mondo che è oltre e altro rispetto alla semplice finzione. Da Perfect Blue , il thriller dell’anime dotato di quelle luminose “interpretazioni soggettive della realtà oggettiva” con cui Kon, mancato pittore che riversa il suo personale uso del colore nell’immagine, tela contaminata dal movimento, fa il primo passo nel mondo della regia, dopo aver collaborato con Katsuhiro Otomo, al low budget Millennium Actress , “una delle opere più misconosciute eppure maggiormente degne di nota” ispirato a Taketori Monogatari del maestro Ozu, in cui il Monthy Phyton del Giappone con la sua messa in scena “stralunata” e il suo stile “fantasmagorico” realizza il suo lungometraggio più miyazakiano. Dalla favola dickensiana Tokyo Godfathers , influenzata da uno dei suoi pochi racconti pubblicati in Italia negli anni ’90, "Joyfull Bell", per merito di Kappa Magazine, che pubblicò anche "World Apartment Horror" (realizzato anche in live nel ’91), che racconta con uno stile documentaristico una storia complessa, fatta di intrighi sovrapposti, secondo un’immancabile costruzione a matrioske, e popolata da outsider sullo sfondo di una Tokyo innevata eppure calda a Paranoia Agent , serie culto per la tv di 13 episodi, “un trattato sull’animazione e [...] sul disfacimento del singolo individuo” in cui l’infanzia è soffocata dall’alienante realtà di un orrore quotidiano impercettibile. Fino al capolavoro psichedelico Paprika , dall’omonimo romanzo di Yasutaka Tsutsui e presentato a Venezia 63, presenziata anche da Mamoru Oshii e Goro Miyazaki, che rappresenta il mondo come una parata di colori e di visioni, con-fusi nella plurivocità del segno filmico e della “piega infinita” del sogno.

La carriera di Kon nell’animazione, come più volte ribadito nel libro, è un prolungamento di quella nell’illustrazione, già caratterizzata da una considerevole altalena tra “contemplazione e rottura con il mondo degli schemi” : lo schermo, caleidoscopico e surreale, viene utilizzato dal regista di Hokkaido come specchio dello schema, della formalità, della convenzione, cui sfugge e da cui si divincola in ogni opera. Il delirio onirico è l’epicentro estetico per esprimere fantasie, sensazioni e sentimenti che già dal primo fumetto "La stirpe della sirena" sembravano indirizzate “verso il cinema” : Kon è “un artista a 360° pronto a disfarsi della propria pelle per vestirne subito una più ambiziosa” ! “Affastellamento d’immagine e montaggio quasi subliminale” compongono una cifra stilistica che indubbiamente affascina l’occhio, ma dietro l’immagine, luogo prescelto dall’immaginazione e configurazione possibile dell’immaginario, si nasconde una calamita per la mente perfino più forte come “la complessità narrativa e teorica” dell’universo koniano, interludio tra le tracce della memoria, come la cinefilia e i rimandi classici, e la verità, intensa riflessione sulla realtà e sul “sogno lucido”. Se nell’introduzione si augura al lettore “Buon viaggio e buona lettura”, a noi non resta che augurare allo spettatore “Buon sogno”.

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Tratto dalla rubrica libri di Close Up ( http://www.close-up.it/spip.php?article5582 )